“Ci sono un italiano a Oslo, un norvegese con la camicia brutta e uno sulla quarantina, che se ne va molleggiando sulla sua bici da cross”
Lunedì 3 Giugno di n anni fa.
Sognsvann è l’ultima fermata metro della linea 6 di Oslo.
Si esce dal treno, si percorrono duecento metri e c’è un lago in mezzo al bosco di abeti e di aceri.
La giornata è luminosa. Giugno è l’estate norvegese.
Ermi e Tere sono qui per passeggiare, io per correre.
I prati vicini al lago sono pieni di persone in costume; il lungolago è pieno di gente che va di corsa.
Il sentiero intorno all’acqua è di tre chilometri.
Mi cambio d’abito. Tolgo jeans e giubbino; tengo gli occhiali da sole con le lenti specchiate; ho già sotto ciclista e maglietta, entrambi grigi. Dallo zaino tiro fuori e indosso il k-way giallo fluorescente: c’è vento, siamo in collina. Allaccio le scarpe. Comincio a correre.
Nel frattempo Ermi e Tere decidono cosa fare: se rimanere a Sognsvann o fare hiking nella foresta. Da qui si potrebbero raggiungere due località vicine: Frognerseteren a 7 chilometri, Ullevalseter a 5 chilometri.
Faccio un primo giro intorno al lago. Nella stessa mia e nell’altra direzione corrono decine di persone. L’acqua è increspata dal vento; nei tratti al sole si sta benissimo. Finito il giro di 3,2 chilometri, mi ferma Ermi e mi dice che Tere sta chiedendo dei sentieri, della difficoltà di ognuno.
Faccio un altro giro, nel frattempo. Incrocio le stesse facce. Torno di nuovo al punto di partenza. Parziale di 6,4 chilometri, ritrovo le ragazze, che mi spiegano: a Fragnerseteren c’è la metro, che potremmo prendere per tornare direttamente a casa, ma il sentiero è tortuoso da Sognsvann e rischiamo di fare tardi. Meglio salire a Ullevalseter e poi scendere di nuovo al punto di partenza per la metro del ritorno.
“Ok, mentre voi imboccate il sentiero, che è sulla sponda opposta a dove siamo, faccio un altro mezzo giro, così arrivo a 8 chilometri circa; nel frattempo voi avete cominciato la salita, io vi raggiungo strada facendo e continuo oltre fino a completare 10 o 11 chilometri; poi vi aspetto, mi cambio al volo e continuiamo tutti e tre assieme” dico io, ma non così bene nella forma.
Finisco il mezzo giro. Di nuovo le stesse facce, ad alcune delle quali sorrido già ormai. Cari pallidi amici scandinavi.
Svolto a destra; sul cartello c’è scritto ‘4,5 km Ullevalseter’. Tere ha detto che sono cinque. Vabbe’, siamo lì.
Le ragazze dovrebbero essere poco più avanti lungo lo stesso sentiero.
Accelero, per quanto possibile. Il terreno è accidentato: radici sporgenti e rocce nei tratti scoscesi; fanghiglia in quelli pianeggianti. Non decelero, sperando di raggiungerle prima possibile. Nono chilometro: niente. Decimo: nemmeno.
Corro tra alberi scuri come ombre. Il sentiero è sempre tracciato. Dopo un breve tratto in discesa, prosegue lungo la circonferenza di un altro lago, più piccolo di Sognsvann.
Corro e alla mia sinistra stanno le acque scure immobili, mentre sott’acqua lunghe alghe si tengono alle rocce della riva come dita nere; sulla destra la parete di pietra umida sembra tagliata bruscamente da una lama smussata.
Sono solo.
Ho una percezione lucida istantanea: questo posto è uno dei più belli che io abbia mai visto.
Mi sento le costole stringere i polmoni e il cuore che batte a grancassa.
Il sentiero attorno al lago finisce inoltrandosi in salita nella foresta, tra le rocce che non sono umide a caso. Da lì proviene l’acqua: un torrente fragoroso senza preavviso, al fianco del quale continua il percorso. Corricchio su passerelle, scanso pozze insidiose e a tratti devo arrampicarmi.
Mi ricordo di campeggiatori norvegesi uccisi da un orso qualche anno fa.
“Memoria, torna al tuo posto. Io e le gambe abbiamo da fare.”
Spero finisca presto questo tratto.
All’improvviso ho paura di non farcela.
Sono anche preoccupato per Ermi e Tere, con le quali non mi sono incontrato. Ma manca solo un chilometro a Ullevalseter ormai. Magari le ragazze hanno seguito un altro sentiero e sono già lì.
Due podisti scendono in direzione opposta alla mia. Sollievo e conforto.
C’è una casa rossa, la raggiungo. Cinquecento metri a Ulleval. Si raddoppiano sollievo e conforto.
Un altro lago davanti a me, una tenda sulla riva. Tiro dritto verso l’acqua e non so perché; perdo il sentiero, torno indietro e lo ritrovo. Sono in parte sollevato per avercela quasi fatta, ma resto col dubbio: “Perché non ci siamo incontrati? Sono forse salite a Frognerseteren?”
Arrivo a Ullevalseter.
C’è una bandierina che ne porta il nome sul tetto di un’altra costruzione rossa in legno. Fermo il GPS, aspetto un po’, corricchio sul posto per non raffreddarmi. Ci sono altre persone lì: due ragazze mangiano un polse sedute a tavolino; un ragazzo in bici rifiata. Guardo il palo con i cartelli dei sentieri che si congiungono qui. Frognerseteren e Sognsvann sono quasi equidistanti da qui.
Chi corre lo sa; chi non lo fa non so:
comunque, si sappia che ogni runner porta dentro sé:
un bambino che gioca correndo;
la curiosità per posti sconosciuti in cui allenarsi;
una quota variabile di idiozia. Specialità della casa.
“Torno indietro o proseguo?”
Lo scout che è stato in me avrebbe detto “torna indietro sulla strada che conosci”. Ma è stato.
Quindi trionfa la semi-infermità mentale podistica, che motiva la propria scelta così: “Giù è quasi tutta discesa, scoscesa e umida. Rischi di farti male tra quelle rocce e quelle radici. E poi l’orso norvegese…”
E quindi altri cinque chilometri in salita, a detta del cartello.
Riparto di corsa. Altro bosco, altri alberi. Il cielo limpido e la luce chiara, tiepida.
Sono l’entusiasmo in giacchetta giallo fluo.
Incrocio una ragazza e un ragazzo che scendono verso Ulleval; chiedo: “Per Frogner quattro chilometri?”
“Quasi quattro e mezzo” risponde il signor Precisetti.
Adoro la Norvegia.
Il sentiero non è ostico. Lo sterrato è ben fatto, anche se in salita.
Da un tornante si vedono in lontananza tre dei laghi che stanno alle spalle di Oslo e i fiumi che calano da questi in città.
Dal lato opposto la foresta. Verde senza fine. Ogni lembo di terra ne è coperto, tranne un corridoio in cui stanno in fila per chilometri quelli che mi sembrano cavi dell’alta tensione.
Salgo ancora, poi discesa agevole. Molti ragazzi in mountain bike saltano tra le rocce. Riprende la salita. Mancano due chilometri a destinazione. È fatta. Sento già il sollievo dell’arrivo e della fine delle preoccupazioni, queste ultime specialmente per le ragazze; perché io so che ormai ci sono, mentre loro sono costrette a immaginare troppi scenari.
Intravedo delle case. Hanno il tetto ricoperto di terreno e d’erba. Sventolano bandiere triangolari con i colori norvegesi. Mi fermo sulle scale del ristorante in cima. Aspetto lì. La città è tutta davanti a me, in dolce discesa verso il mare; le isole a protezione della baia.
Due turisti mi fissano. Lei dissimula meglio di lui, che mi scruta senza vergogna: ha un orecchino per orecchio e una camicia marrone con grossi fiori arancioni, che ne costituiscono la fantasia principale.
Se pensi che io sia ridicolo, hai fatto scopa, ultimo approdo della genealogia scandinava.
Vado via in cerca della metro. La trovo e vado al binario.
Non ho soldi e non c’è la biglietteria. Cerco qualcuno a cui chiedere, ma resto solo per diversi minuti.
Passa un tizio sulla quarantina, che molleggia sulla sua bici da cross con gli ammortizzatori grossi.
Provo a farmi incontro per parlargli, ma forse indignato per la mia approssimazione linguistica, approfittando di una pausa mentre cerco di spiegargli la disavventura, molleggiando se ne va.
Arriva il conducente della metro, che, forse per l’impossibilità a fare molleggiare il proprio mezzo, mi ascolta. Capisce, mi fa spedire un sms dal suo i-phone (“I’m in Frognerseteren station Sebastian”; sms in inglese, visto che nessuno dei due è stato capace di evitare il T9 anglo-norvegese), va alla toilette, ma riparte per obblighi lavorativi prima che io possa ricevere il messaggio di risposta.
Il terzo elemento, si sa, è sempre risolutivo.
Una podista norvegese di mezza età, che si ferma, mi suggerisce varie soluzioni e poi mi porta a casa sua per farmi telefonare dal suo i-phone: una casa con una vista inimmaginabile, a meno di non conoscere la linea 1 della metro di Oslo, fermata Skogen: affaccio diretto da pendio scosceso sul lago sottostante.
Telefono: nessuna risposta; telefono al mio cellulare: risposta.
“Pronto?”
“Sono io…”
Due secondi senza parlarsi, poi ci spieghiamo brevemente: “Ci vediamo a casa”.
Saluto la podista; imbarazzato dal non sapere come poter ricambiare, farfuglio ringraziamenti, mi professo debitore. Lei sorride.
Corro alla fermata ancora in tenuta da corsa, ormai asciutto.
Quasi un’ora di viaggio. I ragazzi con casco e ginocchiere salgono e scendono dalla metro con le mountain bike sporche di terreno.
Arrivo a Toyen, fuori dalla metro corro ancora fino a casa.
Busso alla porta.
“Seb, ma che hai fatto?”
Spiego tutto, ma troppo e in troppo poco tempo. Spiegando di nuovo, ci capiamo
Eravamo tutti e tre sullo stesso sentiero per Ulleval, ma partiti da ingressi diversi. Alla congiunzione dei due ingressi, mi sono ritrovato io davanti di corsa; loro dietro di me, camminando.
Avesse vinto lo scout, la storia sarebbe finita dodici chilometri e un’ora e mezza prima.
E invece totale dell’allenamento giornaliero: 22 chilometri.
Il giorno siamo a Frognerseteren tutti e tre assieme. Un esorcismo.
Sotto un quadro, ritratto di due vichinghi maschi in discesa libera sugli sci (uno dei due capace di sciare e tenere allo stesso tempo protetto dietro lo scudo un bambino impaurito) ci concediamo caffè macchiato e torta con crema di mele e top di panna fresca. Specialità della casa.