Un breve excursus sui fatti miei, poi vi parlo della nostra campionessa di oggi:
Wilma Glodean Rudolph
Prima del running, ho giocato con dedizione a basket. E per divertimento a calcio a 5. Ma ho provato un po’ tutti gli sport. Quasi sempre sport di squadra.
Con la pallacanestro ho avuto un rapporto d’amore profondo.
Cercavo sempre di migliorare me stesso; osservavo molto i miei avversari.
Più di tutti temevo gli intelligenti, quelli capaci di leggere il gioco con un paio di secondi di anticipo. Difendevo con tenacia, tenendo la concentrazione sempre alta.
Più di tutti mi colpivano le “bestie“, quelli capaci di imporre al gioco una piega brutale: mi sentivo sfidato, sentivo di dovermi misurare con loro fino allo stremo. E non è che potessi fare affidamento su un fisico da gladiatore, quindi tutta cazzimma.
A riguardo vi racconterei la semifinale del campionato regionale, gara che vincemmo contro Arzano; però questo blog non si chiama “Scrivo di basket” o “Basket di corsa”. Quindi, andiamo avanti.
Ecco, Wilma Glodean Rudolph, per come l’ho vista nei filmati, è una “bestia”. Una “bestia” stupenda, una saetta.
Wilma nasce nel 1940 a St Betlemme, una frazione di Clarksville nel Tennessee.
Il padre Ed è facchino ferroviario; Blanche, sua madre, è cameriera in una famiglia bianca.
Wilma è la ventesima di ventidue figli.
Nasce di parto prematuro e nei primi anni di vita le becca tutte: il morbillo, la pertosse, la scarlattina e una polmonite doppia, che rischia di ucciderla.
Il medico di famiglia, con grandi pacche sulle spalle dei genitori, dice: “Vi è andata bene che sia viva“.

Poi arrivano la poliomielite e il rischio di zoppìa per la gamba sinistra.
Wilma deve indossare un supporto rigido lungo le gambe. In più le ci vuole una scarpa ortopedica.
Passa un bel po’ di tempo; serve una terapia. Bisogna farla due volte alla settimana in un ospedale, il Meharry Hospital, riservato ai neri, a ottanta chilometri dal suo paese.
E due volte alla settimana Wilma ragazzina sale su un Greyhound, “il” bus americano, seduta in fondo, nei posti consentiti ai neri.
Eggià. Sono ancora anni di segregazione, specie nel Sud degli States.
Chissenefrega che Wilma sia poco più che bambina, zoppa e impedita nei movimenti: il posto è in fondo. Vai.
Dopo due anni di viaggi, la terapia non è finita: prevede dei massaggi intensivi.
Ed ecco che avere ventuno tra fratelli e sorelle torna utilissimo. Imparano a fare i massaggi come si deve.
Dai e dai, Wilma si libera del tutore: riesce a camminare, riesce a correre con i fratelli.
“Penso di aver cominciato proprio allora a formarmi uno spirito competitivo: uno spirito che mi avrebbe poi fatto vincere nello sport”
Parole di Wilma
A scuola inizia a giocare a basket, ha una dozzina d’anni.
L’allenatore che la mette in campo lo capisce subito: “Questa è buona solo a correre”.
Facciamo anche più che buona.
In pochi anni cresce e migliora incredibilmente.
A sedici anni è alle Olimpiadi, quelle del ’56 a Melbourne.
Partecipa alla 4×100 metri e vince la medaglia di bronzo.
Poi uno stop: salta un anno di preparazione perché resta incinta di Robert Eldridge; nasce una bambina. Ed Rudolph proibisce a Robert di vedere Wilma e la piccolina.
1960, Olimpiadi di Roma.
Wilma c’è.
S’è allenata, è in forma.
In semifinale dei 100 metri eguaglia il record mondiale di 11″3. In finale fa 11 secondi netti, ma ventosi, perciò non riconosciuti.
Vince l’oro. Il pubblico romano la adora.
Tre giorni dopo fa il bis nei 200 metri.
Terzo oro nella staffetta 4×100 metri.
La prima donna americana a vincere tre medaglie in un’Olimpiade.
È molto bella. Alta e slanciata, con una corsa ipnotica: dalla potenza di corsa vorticante.
Per la stampa italiana c’è anche una storia d’amore. Wilma e Livio Berruti si fanno fotografare assieme sorridenti.
Livio è il velocista italiano con gli occhiali scuri, vincitore dell’oro nei 200 metri maschili.
“In giro c’era una povertà gioiosa, l’ambiente romano in occasione dei Giochi era esploso in tutta la sua bellezza, ricordo un grande slancio verso il futuro e una forma di partecipazione che ai giorni nostri, purtroppo, si è persa. Wilma Rudolph sembrava una dea partorita per rendere ancora più speciale quell’edizione”
Parole di Livio
Livio e Wilma bevono assieme un drink, si scambiano le tute, fanno qualche passeggiata. Si fantastica: l’uomo e la donna più veloci del mondo. Un bianco e una nera.

Solo nel 2010 Berruti se la canta: in un’intervista al Corriere della sera dice che non c’è stato niente tra loro.
A detta di Livio, per le mire di Wilma, rivolte a un giovanissimo pugile americano, allora ancora col nome di Cassius Clay.
Vabbe’, Livio, a botte no, niente da fare, ma a scappare sì. Tranquillamente.


Wilma Rudolph abbandona le competizioni nel 1962. Principalmente per problemi economici.
Nel 1963, morto suo padre Ed da due anni, sposa Robert.
Lavora come insegnante, come allenatrice di atletica e come commentatrice sportiva.
Fa anche da portavoce di una casa cinematografica e di una società dolciaria.
Negli anni ’70 gestisce una fondazione sportiva col suo nome, poi fa da ambasciatrice onoraria degli U.S.A. in Africa Occidentale.
Nel 1976 entra nella National Track & Field Hall of Fame.
Nel 1977 pubblica la sua autobiografia Wilma Rudolph on Track.
Muore nel 1994 di tumore al cervello.
Nel 2004 in sua memoria viene emesso un francobollo commemorativo.
“Siamo tutti uguali sotto questa luce. Dentro ognuno di noi c’è il seme di una potenzialità che ci può rendere grandi”
Parola di Wilma, la saetta del Tennessee.
Gran bel racconto
Era per me una sconosciuta.
Io avevo letto qualcosa su di lei tempo fa, ne avevo appuntato il nome.