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Coast to Coast e Terre Mutate – agosto 2020

Resoconto poco pertinente di dodici giorni tra Marche e Umbria.
Otto di cammino zaino in spalla, gli altri in giro a magna’.

Ero stanchissimo.
Avevo ancora addosso la lunga reclusione forzata della scorsa primavera, il carico di lavoro degli ultimi mesi, l’afa delle ultime settimane. E non solo: prima di partire mi ero impegnato a ultimare un cambiamento programmato nei mesi. Farlo mi aveva affaticato. Arrivato all’inizio di agosto, ero sfatto.

Sono partito l’11 agosto.
Mi ci è voluto un viaggio in treno lungo sette ore per fare mia l’idea di iniziare davvero un cammino con lo zaino sulle spalle. Zaino che pesava meno della stanchezza.
Al carico si aggiungeva un po’ di preoccupazione per i tanti chilometri da percorrere e per l’inserimento in un gruppo già affiatato, di cui conoscevo poco alcune persone.

Sono partito da casa, quindi, con un doppio fardello. Bagaglio e pensieri.
La buona notizia è che uno dei due carichi è sparito chissà dove, mentre camminavo tra terra e cielo delle Marche. E lo zaino ce l’ho ancora, l’ho lavato domenica.

Il viaggio, perché tale è stato, ve lo voglio raccontare per posti e persone, come viene. Ho visto corrispondenze tra gli uni e le altre. Magari in alcuni casi ho esagerato, ma sono impressioni mie, quindi, accomodatevi. 

Ancona

Entrano con discrezione. Lui davanti, lei dietro. Entrambi con una leggera inquietudine, un po’ appesantiti dall’aria calda del pomeriggio e nascosti a metà dalle mascherine. Parla lui, lei sta zitta. Chiede una camera al tizio della reception, che sta protetto da schermo in plexiglass e mascherina.
– Non ci serve a lungo – dice – Un paio d’ore. 
Che ottimista.

Il tizio risponde che non ha disponibilità, che l’albergo è al completo. Vanno via senza una parola, leggermente di fretta. Di fianco c’è un altro alberghetto simile al nostro, altrettanto anonimo dall’esterno, incassato tra i palazzi e con l’insegna che sa di un’altra epoca.

Il telefono in camera mia, da “Le vite degli altri”

Come un capoluogo qualsiasi, Ancona è bruttina in zona stazione, sia ferroviaria che portuale. Appesantita da viadotti e varianti stradali.

Per conformazione del territorio sale e scende, poggiandosi sul mare in più punti e scalando colline nel mezzo; poi s’allunga verso spiagge pulite a qualche chilometro di distanza dal centro. La taglia nella zona più vivibile un viale lungo e alberato, che lega il porto e il Passetto, zona balneare cittadina, in cima alla quale si staglia un monumento voluto dal regime fascista. A rispondergli ci sono le targhe delle frazioni collinari, dove si raccontano le battaglie della Resistenza per la riconquista della città alla fine della seconda guerra mondiale. Classico italiano.

Il Passetto

Ancona ha la fretta e i traffici tipici della quotidianità, caratteristici delle città. E la necessità di ritagliare tempo dalla routine, che mi riporta con il pensiero a casa, con un certo fastidio.

Il tiramisù a cena ci piace. “Ci”, perché ad Ancora ritrovo le Chiaras, già conosciute mesi prima a Napoli.
Ci piace il tiramisù cremoso, nonostante i savoiardi molto inzuppati. Si apre la disputa se siano preferibili questi o i pavesini. Io e la biondissima, che sembra il titolo di una commedia leggera anni ‘70, siamo del partito blasfemo: pavesini e molta crema; l’altra Chiara è ortodossa savoiarda.

Siamo ad Ancona anche il giorno dopo. Ce ne andiamo al mare a Portonovo in autobus.
Chiediamo indicazioni all’autista, perché cerchiamo riferimenti per il cammino da cominciare la mattina seguente. Ci interessa sapere se ci sono paesini, frazioni, piazze, in modo da potere fare sosta, bere, trovare da mangiare.
La risposta dell’autista è un po’ seccata.
– Non ci sono paesi. 
Abbiamo il dubbio di non avere capito bene. Chiediamo di nuovo.
– Non ci sono paesi, ci sono tre case – risponde un po’ stizzito. D’accordo, ce lo ricorderemo.

A cena ritrovo un pezzo della mia famiglia, quello che stritolo sempre quando in mia prossimità.
La mattina seguente ci raggiungono Ulisse e Alberto ad Ancona. Il gruppo è al completo. Si parte.

Camerano

Se ne sta dietro il banco. Ha la mascherina, come ormai previsto ovunque; la sposta dalla bocca a volte, per farsi capire meglio. Prende ordinazioni, poi le smista; dà indicazioni, gestisce il movimento di clienti all’interno del bar. 
Come spesso accade a chi lavora al bancone, non si scompone quasi mai; anzi, si mostra indolente, quando messa sotto immotivata pressione. Bionda anche lei, dà della “ragazza” alla nostra, meritandosi una menzione d’onore nei giorni a seguire.
Quando paghiamo il conto, si abbassa la mascherina. Il suo è un sorriso consumato. 

Usciamo e siamo inondati dal sole di metà giornata, rovente sul corso principale. Ci aspettano i chilometri che separano Camerano da Osimo e il tratto più fastidioso del nostro cammino, che passa su tre cavalcavia e per molto asfalto.

Arriviamo alla pausa di pranzo accaldati, in cima a una collinetta. Ci infiliamo in un corridoio tra due proprietà private; ci buttiamo noi e buttiamo gli zaini sotto un fico, che ha i frutti ancora piccoli. Altra ombra la prendiamo da un ulivo leggermente sofferente. Mangiamo, beviamo. Dormiamo e il vento ci consola. La prima foto rappresentativa delle Marche la scatto qui.

Ciao, Camerano

Camerano è stata la prima sosta, tappa di passaggio, primo momento di ristoro per bere e procurarsi il pranzo. Una cittadina all’apparenza normale, tranquilla. In una piazzetta ombreggiata, che affaccia su un belvedere, i tavolini di un bar sono occupati da anziani che fanno conversazione, leggendo il giornale. C’è una bambina che chiede il gelato al papà, qualcuno fa una colazione tardiva.
È l’esordio della Lemon soda tra le bevande ufficiali del nostro viaggio. Facciamo anche stretching prima di ripartire. Scopriamo solo a sera di essere passati per un posto celebre in zona, perché non gode di ottima fama. Lo scopriamo a:

Osimo

La faccia del monaco che ci accoglie è serena come quella dei francescani in genere. Gli zigomi sono morbidi, gli occhi ampi, il sorriso placido. Ci guida all’interno della struttura. Chiediamo di lasciare lì gli zaini, prima di accompagnare le ragazze nell’altra struttura dove abbiamo trovato ospitalità, un b&b fuori dal centro città.

Camminiamo lungo i corridoi, che odorano di chiuso e di umido. Alle pareti stanno quadri di santi, ex voto: la solita mobilia. Il monaco rallenta leggermente il passo, apre una porta sulla destra, che ci riempie di luce e si spalanca su una terrazza larghissima.
C’è un giardino di siepi verdi basse, in mezzo al quale s’infilano stretti sentieri di pietrisco. In fondo una panchina con vista panoramica, vicina alla ringhiera, è occupata dal superiore della struttura e da un suo ospite. Ricevuto un cenno cordiale con la mano, il monaco che ci fa strada si ritira e chiude la porta. Torna la penombra nel corridoio. Ci accompagna a posare gli zaini in refettorio.

Stanza su chiostro

Osimo ha il gusto della sorpresa.

Alla città è legato il santo più divertente di cui io abbia mai sentito parlare. E voglio dire che in passato avevo trasformato il mio vecchio blog in un almanacco agiografico, per cui un po’ ne so: San Giuseppe da Copertino, “fratel somaro” per sua stessa ammissione e santo dei voli estatici.
Dopo cena, passeggiamo con alcuni amici del gruppo verso una piazza esterna rispetto al centro. Da qui pare parta una cospicua distribuzione di droghe; da un affaccio di questa stessa piazza, a strapiombo per una quindicina di metri sulla strada sottostante, chi decide che quello sarà il suo ultimo giorno, si lascia cadere.
La mia cittadina è meno rock&roll di così.

Filottrano

I passi lunghi, che a volte si accorciano in una corsettina recupera tempo, sono un tratto distintivo. Il ristorante ha la cucina e una sala all’inizio del corso di Filottrano, ma i tavoli all’esterno sono in una piazzetta a cinquanta metri da lì.
Lui e lei, i gestori del locale in cui ceniamo, li percorrono incessantemente tutta la serata. 

Ci servono i piatti tardissimo, sono porzioni enormi, che quasi nessuno di noi riesce a finire. Alla fine non sappiamo più se abbiamo fame, sonno, fastidio. Controlliamo e ricontrolliamo il conto in cerca di errori. Ci facciamo preparare le confezioni d’asporto degli avanzi. Passa altro tempo. Siamo stanchi. Ciabattiamo fino all’albergo. Abbiamo i piedi gonfi quanto le occhiaie e un sonno enorme.

It’s beginnin’ to look a lot like Le Marche

Filottrano è così. Una faticata.
Ci arriviamo noi esausti durante il pomeriggio e prosciughiamo il bar in piazza. La statua di Beltrami conta le bottiglie di Lemon Soda, acqua e Coca cola in mezzo alle coppette di gelato.
Anche Beltrami se l’è sudata a suo tempo, diamogliene atto, andando a scoprire la sorgente del Mississipi nell’800.

Treia

Signorile. Se ne sta tra le spalle strette, poco mobile nel complesso. Candida è la barba come la camicia. Curato è l’abbinamento dei pantaloni e delle scarpe. Muove lentamente le mani e appena le labbra. Capire cosa stia spiegando non è semplice, ma per fortuna in un albergo le cose da fare sono poche. Ritirare le chiavi: lo facciamo al momento. Salire le scale: facile. Fermarsi al piano giusto: non troppo complicato. Aprire la porta corrispondente: fattibile.
Il proprietario dell’albergo sorride dopo alcune frasi. Noi sorridiamo di rimando, non sempre capendo. 

Tramonti a Ovest (e dove, altrimenti?)

Così anche Treia ai miei occhi. Bella ed elegante, sobria e sottile, stretta lungo la strada principale che unisce le antiche porte monumentali. Quando s’apre una piazza su uno dei due lati, il panorama è di dolce malinconia, anche se è la prima volta che siamo lì.

Fine e silenziosa. Le attività commerciali sono quasi tutte chiuse, poche le persone in giro. Un gruppetto di anziani, tutti con la mascherina, esce da una cappella e si ferma a chiacchierare. Ci guardano tutti un po’ male, non abbiamo le mascherine e siamo palesemente degli estranei.

San Severino

Sembrano piuttosto sfatti. In effetti lo sono, reduci da Ferragosto, che veramente devono avere affrontato come una prova bellica. Asciutti dopo avere sudato, hanno la pelle lucida, le occhiaie profonde e le pupille strette. Si avvicinano chiassosamente ai tavolini esterni del bar. Si affacciano, controllano, guardano tra i tavoli, commentano. Poi entrano dentro il bar. Escono con il proprietario, al quale chiedono di potersi sedere per mangiare lì un’anguria che hanno con loro. Dopo pochi minuti sono lì seduti a mangiare rumorosamente, bevendo birra tra le fette rosse gocciolanti.

Marche a perdita d’occhio

Una cittadina abbastanza grossa, ai piedi di una rocca, che ora è un parco e che prima è stata cittadella con fortificazioni e conventi. Una cittadina con una piazza ovale al centro e tanti palazzi che vi si affacciano sopra. Parecchia gente in strada, seduta sulle panchine e sotto i portici a mangiare. Un’intrusione di vitalità da strada, finora strana per le Marche. A tratti rumorosa. Così San Severino Marche mi pare.

Dormiamo in un istituto di suore. Quella che ci accoglie, il volto mezzo coperto dalla mascherina, minuta e scattante, mi ricorda il cecchino di Full Metal Jacket.

Camerino

Citofoniamo, si apre la porta. Una voce piena e gioviale suona forte nel corridoio stretto. Dietro un cordoncino, impossibilitata ad andare oltre, sta in piedi una suora che occupa buona parte della larghezza dell’ambiente. Ai suoi fianchi due consorelle, magroline e sorridenti.
La suora al centro è piena di vita, non risparmia battute. Ci accoglie con grande cura, ci consegna le chiavi della casetta in cui dormiremo.
Personalmente salto un giro di vespri, ché tanto l’esperienza l’ho fatta già, so di che si tratta e vado in giro per la città, mentre faccio qualche telefonata. Quella suora piena di vita, costretta tra due pareti ma carica d’entusiasmo e proiettata sul da farsi sembra l’incarnazione di una metafora. 

Camerino, centro città

Camerino al momento è così. Steccata da travi e da tiranti, esclusa allo sguardo, trasuda ancora vita. È piena di tracce delle attività che lì ci sono state fino al terremoto. I locali per ragazzi, gli annunci di stanze per studenti, i cartelli stradali delle facoltà. Tutto resta sui muri. Ai muri stanno poggiate le donne anziane, fuori casa al tramonto, sedute in cerchio, ognuna con la sedia di casa propria.

Fiastra

Il barista forse si chiama Stefano o forse Adriano. Ha un baretto sulla strada provinciale, all’inizio dell’abitato. Dormiamo in un rifugio poco distante, non abbiamo la colazione inclusa. Concordiamo con il presunto Stefano caffè e brioche per il mattino successivo, prenotando anche il pranzo al sacco da portare con noi per il cammino. 
È verosimilmente più giovane di noi, che non siamo più tecnicamente dei ragazzi, ma il suo aspetto direbbe il contrario. Sua figlia ha poco meno di un anno, gli sta in braccio. Visti assieme e così vicini, valgono come prova del DNA.

Pendant con gli occhi

Stefano è disponibile e ha modi affabili, è paziente e guarda dritto in faccia. Non sembra turbato dal fatto che il suo bar sia un container causa terremoto, vive con un certo relax l’andirivieni di clienti che s’affacciano alla sua finestrella. Da lì dispensa cornetti, brioche e caffè.
– Gli affari sono andati bene quest’estate, abbiamo lavorato tanto.
Gli brillano gli occhi azzurri, colore del lago del suo paesino.
Si può reagire a un cataclisma, mettendo la vita davanti e andando a prenderla.

Visso – Preci

Sbuchiamo a Visso dopo una tappa estenuante e siamo stanchi e vorremmo solo fare rifornimento di bevande, liquidi e biscotti. Ci servono anche i contanti. Dobbiamo aspettare che vengano a prenderci. Visso ci blocca. Visso s’è bloccata.
Un anziano alla finestra ci guarda. Lo salutiamo, ci risponde.

Siamo costretti dalla zona rossa, in cui siamo sbucati, a fare un giro lungo, passando per una galleria. Quando arriviamo all’inizio dell’abitato, lo reincontriamo, l’anziano della finestra, ma non lo riconosciamo. Lui ci riconosce, ce lo fa notare.
Un modo per stare al mondo in questo gran casino l’ha trovato. Passa attraverso la zona rossa grazie al suo permesso e non se ne cura più di tanto di potenziali crolli e pericoli.

Visso gli somiglia. Sembra vecchia di millenni, ferma nel tempo, irriconoscibile a sé stessa, ma è pure accogliente e desiderosa di proporsi e di fare.
Quel signore dai capelli bianchi ci dà indicazioni dettagliate e ci saluta calorosamente.

C’era una volta l’Est

Francesca arriva dopo.
Abbiamo il tempo per il solito aperitivo, mentre veniamo tormentati dalle vespe e la aspettiamo.
Ci raggiunge in auto assieme a un’amica. Ci portano a Corone di Preci, dov’è previsto il pernottamento.
Attraversiamo una breve valle, in parte stravolta dal crollo di un costone di roccia. Una sosta per recuperare un voluminoso incartamento, poi svoltiamo e imbocchiamo una provinciale. Ci fermiamo a un casolare, lei vive e lavora lì. Da lì poi saliamo al paesino, dove sono le nostre camere.
Ridiamo di un baby doll sgargiante appeso a un filo del bucato, poi ci sistemiamo per la cena, che Francesca ci prepara a tarda sera. Non sappiamo cosa aspettarci.
Ci promette un pasto frugale. Si trasforma in una cena completa, casereccia, con un piattone di pasta fresca al tartufo (contenuto dell’incartamento) e con il colpo telepatico della frittata, di cui abbiamo parlato in camera poco prima.

“Potrebbe piovere”

A Francesca, prima di osservarla bene, non avrei dato un euro. Un po’ goffa, rigida nel porsi, asciutta nelle risposte. Sembrava assente, distante per via di uno sguardo poco focalizzato. Ma la sua personalità viene fuori gradualmente. La curiosità e l’acume di matrice contadina si manifestano attraverso le domande che fa, che lasciano intendere i ragionamenti sottesi, le intuizioni. E dai racconti della sua vita, da ciò che di lei dicono un ospite veneto con la testa piena di ricci e una ragazza pugliese che vive da lei da un anno e mezzo, si intuisce che i modi sono schietti perché è dritta nel pensiero e nell’azione.
Quell’immediatezza vettoriale è indispensabile, se vivi lontano dalle comodità, se sei responsabile diretta di ciò che fai, se non c’è un sistema intorno a tutelarti. Non manca intorno a Francesca una piccola comunità, lo si intuisce, ma non sembra una donna abituata a fare conti su chi potrebbe darle una mano, prima di avere usato entrambe le proprie.

Norcia

– Non chiedete di Don Matteo
No, non lo faremo.
– Davvero, non chiedete perché se la prendono a male. Io ci lavoro, ma la gente non lo capisce. Crede che a Spoleto si giri Don Matteo, quando invece le inquadrature in città sono poche e il resto si fa altrove. Prima giravano tutto in un paesino, ma ora no…

Il punto è che a noi non interessa e nemmeno ci abbiamo pensato, ma va bene così. Ascoltiamo, scopriamo legami con Rovereto da parte della proprietaria di casa, consegnando i documenti per la registrazione.
Vengo sgamato come non-trentino: pazzesco.
È la nostra seconda giornata a Norcia, ultima tappa del cammino. Il momento dedicato all’acquisto dei souvenir, rigorosamente a base di porco e tartufo.

La prima notte l’abbiamo passata in un’altra struttura, un B&B con piscina poco fuori dalla città. 
La piscina ce la godiamo all’arrivo, durante il pomeriggio e pure la mattina a seguire, quando ci dedichiamo alle prenotazioni dei viaggi e alla Settimana enigmistica.

Cattedrale di Norcia

Una signora anziana cammina a bordo piscina in attesa che passino a prenderla. C’è stata un’incomprensione. La tranquillizzano al telefono, ma intanto il tempo passa. Lei non perde la calma, ma si capisce che è stufa e vorrebbe andarsene.

Dopo avere girato per Norcia ancora a pezzi dopo il sisma, con le chiese cadute e le richieste di intervento scritte a lettere maiuscole sui lenzuoli attaccati alle ringhiere, quella donna in attesa mi torna in mente come l’immagine della città.

Spoleto

È il giorno dei saluti, è l’ultimo giro insieme, l’ultimo pranzo, gli ultimi caffè, l’ultima occhiata all’app di tracciamento delle spese, l’ultimo Bartezzaghi con l’ultimo “SMS”. 

Camminiamo per le stradine del centro. Una cittadina stupenda.
Fa caldo, ma chissenefrega. Osservo i miei compagni di viaggio e so che mi mancheranno. Ognuno a modo proprio.
Camminiamo fianco a fianco. I passi hanno trovato ritmi affini. Ridiamo del caldo, di noi, del prossimo lunedì.

“Fìdati di chi divide con te
il pane e la strada.
Non fidarti del gioco
delle tre campane.”
(Santo Biase)

Rotto di cazzo, un signore che voleva affacciarsi alla grata dietro di noi, si è proposto di scattare la foto, purché ce ne andassimo.

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Pupazzella

    Le nuvolette e le collinette: meraviglia.
    Il riflesso delle collinette e le nuvolette nel lago: meraviglia delle meraviglie.
    Ma la morale (considerato anche l’esempio del lago di Braies da qualche anno) è che Terence Hill la deve finire di andare girando a ‘nguaiare la gente.

    1. Seba

      Tra l’altro, ci riesce senza pronunciare decentemente una sola parola.

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