Rimbombarono come schiaffi, ma pieni, stracolmi. Riempirono il buio. Cinque, dieci volte. Passi svelti, passi stanchi, che poi risuonarono secchi, stretti.
E l’ombra si fece luce, che invase tutto: la pista e gli spalti del Melbourne Cricket Ground, la testa e le spalle dell’uomo del destino, salvato e segnato dal destino.
Alain Mimoun, nato Ali Mimoun Ould Kacha. Nato a Telagh, in quella Francia che sarebbe stata Algeria. Nato contadino, nato povero, figlio maggiore di sette. L’uomo del destino, Alain. Fino a quel momento no, ma in quel giorno di luce sì. Il giorno della maratona olimpica a Melbourne, 1 dicembre 1956.
Glielo raccontava sua madre che era destinato a grandi cose. Lo capì una notte che la luna si fece enorme, tanto che quasi si staccò dalla notte buia e sembrò caderle addosso. Raccontò quel sogno all’anziana del villaggio, che la confortò: “Partorirai un maschio, avrà un destino luminoso”. Gliela ripeté sua madre in punto di morte, quella profezia.
Dalle tribune un boato. Ti videro finalmente apparire, stretto nella fatica. Accorciati i passi, brillante la testa nera di sudore. Ai quarantadue chilometri già corsi sotto il sole mancava mezzo giro di pista.
“Col numero 13 Alain Mimoun, Francia” urlò lo speaker.
Nato oltremare, nato francese, nato algerino. Da ragazzino a formare mattoni, poi garzone di ferramenta, grato a chi ti fece lavorare e condivise con te il pane. “Se lui è francese, lo sono anch’io” dicesti a tua madre. Chi eri, Alain?
Blu la canotta, bianco lo sgambato, neri i baffetti.
Lo sapevi che era fatta, eppure temevi di essere raggiunto. Un orecchio alla gamba sinistra, uno sguardo dietro la spalla. Vedesti qualcuno, Alain? Stava rimontando come suo solito Emil? Come un treno lanciato sbuffante, capace di travolgere tutti? No, Alain, eri solo.
Fante dell’esercito di Francia, per mettere in guardia un superiore sprovveduto, a Cassino quasi perdesti un piede, quasi perdesti il destino.
A questo pensavi a Napoli, disteso nel letto d’ospedale? Zoppo a vita?
No, Alain. Il piede tornò com’era. La guerra finì, ricominciò la vita.
In curva accelerasti. Ancora uno sguardo dietro alla ricerca di Emil. Non c’era nessuno.
Quando Monsieur Vilar ti vide correre la prima volta in pista, sbalordì. Ti chiese di sfidare il campioncino locale, alto nel completino candido, impomatato. E tu con gli scarponi, scuro come un’ombra, ti mettesti alla sua andatura, un passo dietro. Il sorpasso lo facesti in curva, arrogante; gli passasti così vicino, così forte, che quasi lo risucchiasti dietro di te. Non ci credeva lo stangone, ma ci credette Vilar: tu eri già un campione.
Ormai davanti a te nel giorno di luce c’era l’ultimo rettilineo. Controllasti ancora una volta. Intorno a te soltanto i giudici in giacca scura, intorno a te lo stadio che esultava. A casa tua moglie Germaine aveva partorito una bimba, l’avresti conosciuta al ritorno, Olympe.
Prima di Melbourne, fosti per quasi dieci anni il campione del mezzofondo di Francia e del Mediterraneo. Ma battere Emil era impossibile. Tu lo conoscevi bene, lo stimavi, forse lo odiavi, ma lo veneravi. Emil era tutto: marito e sovietico esemplare, soldato e atleta inossidabile. Emil era Zatopek.
Nel 1948 arrivasti secondo dopo di lui, unico in gara a non finire doppiato dalla locomotiva umana. Onore nazionale. Quando tornasti al tuo lavoro di cameriere, il tuo capo capì che eri importante, uno bravo. Non ti diede più per pranzo gli avanzi di cibo dei clienti, ma un pasto completo.
“Tu corri forte, devi mangiare bene, per la Francia!”
Ma dov’era Emil in quel giorno di luce? Che fine aveva fatto?
A pochi metri dal traguardo ti girasti a guardare l’altro lato della pista. Nessuno. Arrivasti vincente al traguardo della tua prima maratona, con calma, nervoso. Rifiutasti l’asciugamano, allontanasti i medici.
Dov’era?
A Helsinki nel 1952 Zatopek aveva vinto tutto: 5mila metri, 10mila e maratona. Nessuno prima di lui, nessuno dopo di lui. Emil come un treno, Emil la locomotiva umana. Dicevano che si allenasse, correndo con la moglie sulle spalle. Dicevano che ormai c’era il solco nella prima corsia della sua pista, a furia di andare.
Uomo di ferro e caucciù, avevi temuto negli ultimi anni di carriera, perché la sciatalgia ti tormentava. “Un male da cameriere”.
Testa dura d’un Alain, cocciuto come tuo padre, che voleva fare tutto da solo, senza capi. Cambiava lavoro, seguendo le stagioni. Piantava e vendeva meloni in primavera, trebbiava d’estate; l’autunno lo dedicava al vino, d’inverno spaccava le pietre.
Come avessi accumulato la sua fatica, la tua debolezza era nella schiena. Ma guaristi per miracolo, invocando i santi, cambiando nome al tuo dio.
A Melbourne pochi giorni prima della maratona, il russo Kuts aveva battuto tutti sui 5000 e sui 10000 metri. Anche te, anche Emil. Sembraste entrambi bolliti ormai, ma partecipaste comunque alla maratona.
“Attento ai russi” disse Zatopek sulla linea di partenza della maratona.
“Devo stare attento a te” rispondesti.
“I russi, attento a loro” ribadì lui, il cappellino da pittore basso sulla fronte.
Alla partenza quasi tutti tenevano una bandana chiara in testa. Anche tu. La tua portava ricamate le iniziali di tua moglie. Faceva caldissimo.
E i russi partirono forte, subito in testa. Emil si tenne staccato. Fiustasti l’ambiente come un felino nella savana: non era la sua giornata. Al tuo fianco correva John Kelley, tenne il passo, sembrava potessi fare gara con lui, ma a metà gara ti urlò “formidable!”, ti diede uno schiaffo e ti gridò di andare a vincere. Crollò John.
Passasti il giro di boa poco dietro i russi. Mentre ti venivano incontro, li salutasti. Ti presero per pazzo. Aumentasti l’andare per raggiungerli.
Sentisti una voce. Era la tua, muta. Ti disse di non bere. E non bevesti più.
Venti chilometri all’arrivo. Una collina. Gli occhi ti si riempirono di lacrime.
Decidesti che avresti vinto lì, allungasti la falcata, andando via senza guardarli, senza voltarti indietro.
Lanciasti la bandana: pesava sulla testa come un macigno. E intanto pregavi. Per tua moglie e tua figlia, per il santo del miracolo e per la tua mamma. Per il tuo papà spaccapietre.
Passò una moto al tuo fianco. Ti urlarono che mancavano due chilometri. La gente ti salutava in strada.
Quando entrasti nello stadio, passando sotto le tribune, la luce sparì nell’ombra per pochi passi, cinque o dieci, poi tornò a brillare.
La pista, il sole, il boato della folla. Tu primo al traguardo in 2 ore e 25 minuti. Mihalic secondo, Karvonen terzo.
“Emil dov’è?”
Ci mise altri quattro minuti. Non era lui quel giorno. Non era più lui, il suo tempo era finito. Quando arrivò, camminando sull’erba in mezzo alla pista, Emil Zatopek sembrava un santo stranito.
“Non mi fai i complimenti?” gli chiedesti sorridente “Ho vinto, Emil!”
Zatopek ti guardò. Si mise dritto e ti omaggiò col saluto militare. Poi si tolse il cappellino da pittore, ti abbracciò sorridente e ti strinse a sé.
Vincere è un destino, Alain. Una casa costruita sulla fatica. E tu lo capisti quel giorno a Melbourne, trentaseienne a fine carriera, alla prima maratona della tua vita, che il destino chiama tutti, ma risponde solo a chi non teme la sconfitta e il sacrificio.